24 Luglio 2015
C'è da dirlo senza esitazioni: è una fortuna che un gruppo di individui ogni anno investa le proprie energie per trasformare l'idea del Vasto Siren Festival in realtà. Il festival è una risposta eccezionale a un sentimento piuttosto diffuso tra chi è solito scegliere Vasto come meta estiva così come tra molti autoctoni: quello che l'offerta culturale del posto sia troppo povera o comunque che non sia tale da rendere la città una scelta appetibile per la villeggiatura da parte delle generazioni più giovani. Ben vengano dunque iniziative che finalmente rendono possibile l'appropriazione dei meravigliosi spazi del centro storico (della bellezza della location se ne sono accorti gli stessi artisti: è il caso di Mark Kozelek, leader dei Sun Kil Moon, il quale ci ha tenuto ad esternare più volte il suo apprezzamento per il pubblico e la location) come cornice per dare libero sfogo a energie e passioni che hanno bisogno di essere soddisfatte tanto quanto le necessità primarie che paiono essere l'unico focus delle politiche sociali e culturali della zona.
Il festival si apre in Porta San Pietro, location aggiuntiva rispetto alla Prima Edizione, con Iosonouncane:
orario da aperitivo, vista sull’intera insenatura che raccoglie Vasto, San Salvo e Termoli e l’accompagnamento di questo moderno stornellatore, al secolo Jacopo Incani, che si esibisce solo col suo synt. Il disco che ci presenta, Die, è un sapiente mix del primo Battisti, rievocazioni di Battiato e tappeti elettronici che stonano (apparentemente) col cantato, inserendo Incani nel pieno dei suoi giorni.
L’impressione che stiamo vedendo un nuovo vero artista tutto nostrano è forte.
Ci si sposta nella location principale, Piazza del Popolo, palco che si proietta direttamente sullo sfondo dell’Adriatico. I primi ad esibirsi qui sono i Gazelle Twin, che vanno in scena con maschere di pelle senza occhi: beat più cupi e nevrotici, ed Elizabeth Bernholz che canta.
I Sun Kil Moon si accaparrano la location più evocativa, il cortile D’Avalos, una corte interna sulle cui facciate scorrono videoproiezioni e regalano una performance di una profondità rara, muovendosi in maniera estremamente agile tra territori delicatissimi come quelli dei dialoghi sussurati di chitarra e basso, e una forza dannata con la quale il carismatico/enigmatico frontman Mark Kozelek dà sfogo a urla rabbiose degne del Nick Cave dei Birthday Party. Proprio alla famiglia di Cave, recentemente colpito da un'orrenda tragedia, la band dedica una cover di "The Weeping Song", interpretata in modo gentile, come se gli strumenti, invece di essere suonati, venissero sfiorati, nel maneggiare quella fragile materia che è la tematica della morte. Ad accompagnare Kozelek due mostri sacri: Steve Shelley dei Sonic Youth alla batteria e Neil Halstead degli Slowdive alla chitarra.
Grandissimo, al solito, lo show dei Verdena, che superano la sfida del replicare la complessità dei suoni del loro ultimo album dal vivo. La multistratificazione di grassi synth analogici e chitarre gracchianti di fuzz vintage funziona alla grande anche dal vivo.
Intanto, sul palco di Porta San Pietro, gli Stearica si impegnavano a rovinare la passeggiata serale alle famigliole. Al loro noise-math-rock audace spetta il compito di scompigliare i capelli, sconvolgere i benpensanti, ed omaggiare la sirena di Vasto con un po' di sana aggressività.
Clark scandisce in gran stile il passaggio alla fase elettronica della serata. Apre con un ouverture sintetica e rarefatta, ma dopo poco, in concomitanza con l'arrivo in massa del pubblico nel cortile, si riscalda sino quasi ad impazzire. Il suo show sarà una carrellata di decostruzioni dei canonici generi elettronici, un'esplorazione delle possibilità di isolarli, portarli all'estremo, e farli interagire tra di essi. Synth dal sapore ora idm ora dubstep, talvolta persino house, viaggiano a velocità supersoniche neanche fosse un rave hardcore, entrando in collisione con kick-drum poderosi, ritmiche e sound design da navicella spaziale in un film anni '80, il tutto mixato in maniera magistrale e sputato fuori in un suono perfettamente definito (forse pure troppo?).
Il concerto più atteso si fa aspettare fino alle 2:00, per un ritardo del volo dall’Inghilterra; è quello di Jon Hopkins che apre il suo set con grinta. Sale sul palco e sembra voler mostrare i muscoli, dando sfogo a colpi di cassa intervallati da delirio sonico. Seguono una ventina di minuti in cui il giovane producer dimena freneticamente i tentacoli, sferzando colpi di delay impazzito dai suoi Kaoss Pad, che scaturiscono in scatti di euforia da parte di un pubblico infiammato. Il set continuerà su una direzione meno aggressiva e più orecchiabile per poi virare verso una terza delirante fase finale in cui i ritmi tornano a spezzarsi e frammentarsi in mille schegge di piccole sfaccettature sonore."
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Ad arricchire ulteriormente il festival, le giornate di musica sono introdotte da diversi incontri rivolti alle maggiori problematiche dell’ambiente musicale contemporaneo, come ad esempio “I vantaggi dell’autoproduzione” oppure “Indie Rock vs Club culture”, che mostra come queste due culture un tempo contrastanti volgono sempre più ad un futuro di influenze e contaminazioni.
Sono le 19.45 e, con una puntualità alla quale non si è tristemente abituati frequentando altri festival, dal Main Stage di Piazza del Popolo si iniziano a propagare per le strade di Vasto i suoni delle Pins. Band britannica, al secondo album intercettata nel corso del loro tour europeo, che padroneggia quella che per loro potrebbe essere considerata musica popolare, una naturale evoluzione del classico Brit Rock. Band che tuttavia conserva la principale particolarità nell’essere interamente composta da donne.
Nel frattempo nella cornice dei giardini adiacenti a Palazzo D’avalos si respirava tutt’altra atmosfera, Scott Metthew. Conoscendo solo qualcosa della sua musica, ma non la sua immagine, lo abbiamo visto passarci vicino poco prima dell’esibizione, ma non avremmo mai immaginato che tutta quella carica di emotività e di patos, tipica della sua musica, provenisse da quell’omone australiano. Nei giardini regna il silenzio per non disturbare l’esibizione, lo spettatore più indisciplinato bisbiglia con la paura di rovinare quell’attimo.
Basta però attraversare il centro storico e arrivare a Porta San Pietro, sul belvedere, per trovare ancora un altro ambiente, La Batteria. Che disposti ai piedi della Porta sembrano bussare, bussare e bussare alle porte della città. Sullo stesso palco si esibiranno Indian Wells e Fabryca.
Tornando verso il palco centrale si arriva all’interno del cortile di Palazzo D’avalos, dove sta per esibirsi Colapesce, Cantautore siciliano, precedentemente definito dalla stampa estera il futuro dell’Italia, individuato come erede della storica nostra corrente cantautorale. Lo spettacolo è interessante ed avvincente, nonostante il progetto sia incentrato sui testi e sulle melodie, non è mancata la cura per l’aspetto strumentale e la creazione di dinamiche sempre interessanti e originali.
La line up è molto varia e vastissima, ma l’attenta organizzazione del festival permette di riuscire a seguire quasi senza problemi tutte le esibizioni.
A seguire si riaccende il palco di Piazza del Popolo per ospitare i The Pastels, che si confermano a distanza di decenni dai loro inizi, come capofila di una corrente indie ispirata alle grandi band del passato.
Si mangia qualcosa al volo per non perdere nulla, per tornare nel cortile D’avalos dove i Is Tropical stano colorando il palazzo con i suoni ricercati e l’attenzione all’effetto desiderato.
Dopo un intera giornata tutto il pubblico del festival si inizia a raccogliere in Piazza del Popolo e da subito inizia a chiamare l’headliner della serata. Tra l’isteria e l’acclamazione degli spettatori compare sul palco James Blake, con i suoi collaboratori.
Inizia lo spettacolo, sullo sfondo ormai buio solo le luci della costa adriatica, sul palco un set luci discreto ma molto efficace e poi i suoni, forti, puliti e decisi di Blake. Uno spettacolo stimolante e coinvolgente. Anche qui nella preparazione dei brani, il pubblico assiste alla realizzazione dei “loop” in silenzio, come bambini incuriositi dal vedere i brani conosciuti prendere vita, un pezzo alla volta. Quando è tutto pronto si parte ed ogni volta è una sorpresa, ogni volta è un colpo che stringe lo stomaco, ogni volta è un emozione.
Il festival non dimentica di organizzare il post serata, proponendo oltre a un set in centro a Vasto, sposta il pubblico sulla spiaggia dove un attenta selezione di dj accompagneranno il festival a spegnersi nelle prime luci dell’alba.
Una fantastica realtà, un piacere per occhi e orecchie, Vasto si trasforma in una culla di musica e cultura e l’impeccabile organizzazione contribuisce enormemente a rendere il Vasto Siren Festival un’esperienza piacevole e sempre interessante. Siamo già in attesa di scoprire cosa ci riserverà per l’anno prossimo.